Guido Carandini

Un altro Marx

Laterza, Bari 2005
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1.

Non per caso il saggio di Carandini è inaugurato da una citazione di Derrida. Nel 1993, quando il neoliberismo celebrava la morte del comunismo e del suo ispiratore, sulle cui spalle veniva poggiata assurdamente la responsabilità dell’esperienza sovietica, Derrida ha avuto il coraggio di difendere con passione la statura di Marx come pensatore intramontabile, la cui lezione metodologica e il cui spirito di ricerca critica sui fenomeni sociali apparivano, a suo avviso, più che mai necessari. Pur non essendo mai stato marxista, Derrida concludeva la sua arringa a favore del pensatore di Treviri con una sorprendente e provocatoria affermazione: "Sarà sempre un errore non leggere e rileggere e discutere Marx... Sarà sempre un errore, un venir meno alla responsabilità teorica, filosofica, politica. Da quando la macchina per far dogmi e gli apparecchi ideologici "marxisti" (Stato, partito, cellule, sindacati e altri luoghi di produzione dottrinale) sono in via di estinzione, non abbiamo più scuse, più alibi, per distoglierci da questa responsabilità. Non ci sarà altrimenti avvenire. Non senza Marx, nessun avvenire senza Marx. Senza la memoria e l'eredità di Marx."

L’appello di Derrida non ha avuto grande risonanza in Italia, laddove, in conseguenza del berlusconismo, l’etichetta di comunista, applicata piuttosto disinvoltamente, è divenuta una chiamata di correità con i crimini staliniani.

Guido Carandini, la cui frequentazione intellettuale con Marx è di antica data, reitera l’appello di Derrida ma da una diversa prospettiva. Laddove il filosofo francese rivendicava la statura filosofica di Marx e proponeva di far tesoro del suo spirito radicalmente critico, Carandini propone invece di recuperare la dimensione scientifica del pensiero economico marxiano. Egli scrive "occorre studiare nuovamente Marx per riacquistare una chiara coscienza di come effettivamente funziona la società del capitale e per comprendere quali sono, al di là delle sue eccezionali capacità di favorire la crescita economica, le sue contraddizioni e i suoi limiti." (p. 34) L’invito, presumibilmente poco gradito, è rivolto tra l’altro ai riformisti, affinché desistano dal cercare una Terza Via che non esiste: "Coloro che rifiutano la realtà antagonistica e anarchica o negano la base disuguale su cui si reggono le sorti del sistema capitalistico, e per questo contestano Marx, si precludono la sola possibilità di "riformare" quel sistema. Per paradossale che possa apparire, l’unica strada aperta ai riformisti è quella di prendere Marx alla lettera, ovviamente rinunciando alle fantasie utopistiche che hanno contaminato il suo pensiero scientifico." (id.)

L’invito è provocatorio, ma si fonda su di una rilettura e una nuova interpretazione del pensiero marxiano.

Devo dire preliminarmente, per amore di onestà, che la novità di tale interpretazione, sottolineata da numerosi recensori, non risulta affatto sorprendente per chi ha letto per intero i Grundrisse e Il Capitale. Essa è destinata a sorprendere soprattutto coloro che si sono limitati a leggere il celeberrimo Manifesto del Partito Comunista e il Libro Primo (o addirittura solo alcuni capitoli) de Il Capitale. Anche tra le file di coloro che si sono dichiarati comunisti fino alla caduta del Muro di Berlino e di coloro che hanno continuato a dichiararsi tali, si tratta peraltro di una grande maggioranza.

Come ho avuto modo di rilevare nell’Introduzione al mio saggio su Marx (di cui sto preparando una seconda edizione), le opere del pensatore di Treviri sono di ardua lettura. Esse attestano uno sforzo ininterrotto di riflettere sulla realtà sociale analizzandone gli aspetti complessi e i cambiamenti, cercando le cause dei fenomeni, le essenze al di là delle ingannevoli apparenze: questa è la lezione metodologica che Marx ha consegnato ai suoi eredi e che è stata in gran parte, almeno a cominciare da Stalin, tradita.

Carandini riprende la questione ab-ovo, interrogandosi sul significato complessivo dell’opera di Marx. La sua tesi di fondo è che tale opera riflette una doppia personalità: l’una è quella del profeta messianico e utopista, che prevede deterministicamente il crollo del capitalismo in conseguenza della rivoluzione proletaria; l’altra è quella dello scienziato sociale, che studia l’evoluzione storica e economica giungendo a subordinare la nascita di una forma superiore di società al massimo sviluppo delle forze produttive che può essere raggiunto solo in virtù della diffusione globale del capitale. Al Marx "rivoluzionario", che propugna l’avvento del comunismo attribuendolo a leggi intrinseche all’evoluzione storica, si contrapporrebbe dunque un Marx "riformista", la cui analisi del capitalismo implica la necessità di un suo graduale superamento sulla base delle sue intrinseche contraddizioni.

Affrancando il Marx riformista da quello rivoluzionario, si consegue, secondo Carandini, l’effetto di rivitalizzare un pensiero critico attualissimo in quanto le contraddizioni e i limiti del capitalismo, posti in luce da Marx con una profondità senza confronti, sono ancora del tutto attuali e impongono alla sinistra riformista di trovare soluzioni alternative rispetto a quelle fallimentari proposte dal Marx profeta utopistico.

Non è un caso che il liberismo insiste politicamente a mantenere fermo il rifiuto di Marx facendo riferimento al carattere dittatoriale del regime propugnato dal rivoluzionario utopista. In realtà "la persistente ostilità verso Marx è dovuta piuttosto alla riluttanza della cultura economica e politica dominante a misurarsi con la sua descrizione antagonistica e anarchica della nostra società. Che è una società antagonistica, perché è caratterizzata inesorabilmente dalla proprietà privata dei mezzi di produzione monopolizzati dalla classe dei capitalisti la quale, nella ripartizione del prodotto netto sociale, si appropria della quota preponderante rispetto a quella destinata al lavoro salariato. Ed è una società anarchica, perché in essa non esiste alcuna necessaria corrispondenza fra la produzione in mano ai privati e l’ammontare dei bisogni della società che dovrebbe soddisfare. Cosicché è il teatro di continue sproporzioni tra l’offerta e la domanda, con inevitabili squilibri di sovrapproduzione e di sottoccupazione.

Dunque, in breve, Marx è ignorato perché ci ha consegnato il ritratto di una società che, anche quando riconosce ai cittadini l’uguaglianza dei diritti politici e civili come avviene oggi solo nel nucleo più avanzato dei paesi capitalistici, ha ineluttabilmente per base la disuguaglianza economica e il conflitto sociale." (pp. 32-33)

Un altro Marx, dunque, propone, dunque, un ritorno a Marx come scienziato sociale in grado di spiegare queste contraddizioni intrinseche al capitalismo e insormontabili sulla base di un suo sviluppo nella direzione liberista.

Come se già questo non bastasse a turbare la coscienza dei riformisti (almeno nostrani), Carandini ha addirittura il coraggio di identificare il nocciolo duro dell’analisi scientifica di Marx del sistema capitalistico nella teoria del valore-lavoro che, a partire da E. Böhm-Bawerk, è stato identificato come il punto debole per eccellenza dell’edificio teorico marxiano, e della cui precarietà scientifica Marx stesso era dolorosamente consapevole. Si tratta dunque, nell’intento dell’autore, di formulare quella teoria in termini nuovi, facendo leva su di una rilettura dell’opera di Marx che ne valorizzi la dimensione scientifica ponendo tra parentesi quella profetico-utopistica.

2.

Le argomentazioni con cui Carandini reinterpreta e restaura la teoria del valore sono complesse e in qualche misura "tecniche". Cerco di formulare una sintesi la più chiara possibile.

Marx, fin dalle prime righe de Il Capitale, coglie nella trasformazione in merci dei beni il carattere più specifico del sistema capitalistico rispetto a quelli che lo hanno preceduto, nei quali essi erano prodotti primariamente in rapporto all’uso. Tale trasformazione implica che ogni bene, al di là del valore d’uso, ha un valore di scambio quantificabile e monetizzabile. E’ il valore di scambio il motore dinamico del capitalismo poiché esso implica un di più rispetto al denaro investito dal capitalista nella produzione dei beni, vale a dire un profitto. Da dove viene questo di più che consente al capitale di accrescersi continuamente?

Per rispondere a questa domanda, Marx dà credito all’ipotesi avanzata da Ricardo secondo la quale il valore di una merce si identifica con il lavoro in essa incorporato, e la porta alle estreme conseguenze. Quell’ipotesi infatti implica che, nella circolazione del capitale, che viene investito come denaro nella produzione della merce e si trasforma nuovamente in denaro attraverso la vendita della merce, si debba dare uno scambio inuguale. Marx identifica tale scambio nella "libera" contrattazione tra capitalista e operaio, in seguito alla quale il capitalista si appropria delle energie e del tempo dell’operaio utilizzandole per produrre più di quanto questi riceva sotto forma di salario. Questa è l’origine del plusvalore, che, dopo la vendita della merce, ritorna al capitalista sotto forma di guadagno.

Se il plusvalore, che è un "furto" legale (ossimoro che pervade tutta l’opera di Marx) perpetrato a danno dell’operaio, è la chiave esplicativa del sistema capitalistico, vale a dire della sua straordinaria capacità di produrre ricchezza, sulla base di esso dovrebbe essere possibile determinare a tavolino i prezzi delle merci. Marx stesso, nonostante gli innumerevoli tentativi di risolvere il problema della trasformazione del plusvalore in prezzi, ha dovuto arrendersi al fatto che ciò non è possibile.

Questa lacuna della teoria marxiana ha dato il via alle teorie dell’equilibrio che, facendo leva sua legge della domanda e dell’offerta, giungono alla conclusione che il sistema capitalistico è dotato di una capacità di autoregolazione sul piano del mercato.

Carandini giustamente rileva che se la teoria del valore di Marx e dei marxisti che hanno tentato di accreditarla è insostenibile sul piano economico, in quanto essa non spiega la trasformazione del plusvalore in prezzi, non lo sono di meno le teorie dell’equilibrio, che non spiegano le crisi di sovrapproduzione e di sottoccupazione che, se fossero vere, non avrebbero ragion d’essere. Egli ritiene che "senza la teoria del valore-lavoro rimane senza spiegazione la formazione del sovrappiù e quindi la stessa accumulazione capitalistica." (p. 100)

Ma in quali termini si può riproporre tale teoria sfuggendo alla critica radicale dei liberisti?

A riguardo, Carandini avanza un’ipotesi che si può ritenere suggestiva. Egli muove dal presupposto che "Marx si è sforzato di penetrare al di sotto della superficie dei fenomeni sociali, ma con il medesimo intento di chi indaga i fenomeni naturali, che è quello di scoprire le "intime connessioni" che costituiscono le leggi di movimento dei fenomeni." (p. 103) In virtù di questo egli ha scoperto che un aspetto specifico e differenziale del capitalismo rispetto a tutti gli altri sistemi economici che si sono succeduti nel corso della storia è la riduzione del lavoro umano a merce, tal che "il suo valore d’uso, cioè la sua utilità concreta di produrre beni, è cosa distinta dal suo astratto valore di scambio in base al quale viene acquistato dal capitalista." (id.)

Perché questo aspetto è straordinariamente importante? Perché esso, secondo Carandini, consente di capire che "esistono due livelli della struttura economica capitalistica che devono essere oggetto di due distinte analisi, e cioè il livello sociale astratto dei "valori di scambio" che è celato e che sta dietro al livello sociale concreto dei "prezzi di produzione delle merci." (p. 114). Ora "l’esistenza dei due livelli e la conseguente necessità di analizzarli separatamente appartiene alla sola realtà della struttura capitalistica nella quale tutti i prodotti del lavoro diventano merci e dunque... sorge la dualità del valore d’uso e del valore di scambio. E’ questa dualità che si traduce poi nel fatto che i fenomeni che appaiono alla superficie (dei prezzi) non rivelano le relazioni sottostanti (dei valori)." (p. 115)

Marx stesso ha intuito questa dualità paragonando il valore alla gravità e il prezzo al peso. Questa similitudine Carandini la assume come fondamentale scrivendo: "Il valore è la forza sociale che ogni bene, prodotto dal lavoro, esercita e subisce nell’interazione (lo scambio) con altri beni prodotti dal lavoro. Ma mentre la massa è una caratteristica intrinseca materiale dei corpi, il lavoro incorporato è anch’essa una caratteristica intrinseca, ma questa volta solo ideale, dei beni prodotti dall’uomo grazie alla quale un bene possiede il suo valore per lo scambi nel mercato.

E se al posto del peso mettiamo il prezzo, l’analogia suggerirebbe che: il prezzo è la manifestazione estrinseca, dunque anche in questo caso misurabile, di quella forza sociale del valore che ogni particolare prodotto del lavoro possiede e dell’azione che un altro particolare prodotto del lavoro esercita su di esso ." (p. 120)

3.

D’acchito, la reinterpretazione di Carandini della teoria del valore non sembra particolarmente originale, ma, di fatto, lo è, perché essa pone da parte il problema della trasformazione del plusvalore in prezzi, e pone l’accento sulla scoperta effettuata da Marx del basso continuo che sottende il sistema capitalistico senza apparire a livello di superficie. Tale basso continuo è da ricondursi al fatto che il capitale, per valorizzare se stesso all’infinito, non può prescindere dal considerare e trattare la forza-lavoro umana sempre e solo come una merce. La teoria del valore-lavoro non implica che lo sfruttamento della forza-lavoro sia l’unico fattore che genera il plusvalore. Senza tale sfruttamento, però, il sistema capitalistico non potrebbe funzionare.

Se si considera che all’epoca di Marx gli operai (con i contadini sfruttati a loro volta) rappresentavano più del 90% della popolazione europea, l’appello rivoluzionario rivolto ai proletari non sembra affatto incomprensibile, così come non sembra incomprensibile che egli abbia parlato di dittatura del proletariato, non già in riferimento al potere assoluto (da conquistare con una rivoluzione) di una classe su tutte le altre, bensì all’egemonia di tutti i lavoratori, vale a dire la stragrande maggioranza della popolazione, su di una ristretta minoranza improduttiva,avida e parassitaria.

La "dittatura" di cui parla Marx, che ha adottato il termine mutuandolo dall’antica Roma, laddove esso designava un istituzione cui si faceva ricorso in situazioni di estrema emergenza che ponevano a rischio il bene comune, senza immaginare il significato sinistro che esso avrebbe assunto nel corso del XX secolo, e senza poter prefigurare il comunismo sovietico, consisteva semplicemente nel porre sotto il controllo dei produttori il frutto del loro lavoro, eliminando ogni forma di sfruttamento e di oppressione dell’uomo sull’uomo. Nel pensiero di Marx, il comunismo non significava tout-court l’abolizione della proprietà privata, ma solo il superamento di un tipo particolare di proprietà: quella dei mezzi di produzione che consentono di ridurre il lavoro a merce e consentono, dunque, lo sfruttamento dell’uomo: in breve la riappropriazione della ricchezza sociale da parte dei produttori.

Se questo è vero, la riacquisizione e l’uso del pensiero di Marx in una cornice socialista che, sia pure in tempi e modi dettati dalle esigenze storiche, sia rivolta al superamento del sistema capitalistico in ciò che esso ha di specifico e di intrinsecamente "selvaggio" — non già il mercato, ma la mercificazione dell’essere umano — appare un momento indispensabile della riorganizzazione della sinistra mondiale, messa a dura prova da un processo di globalizzazione che, avviatosi sulla base del neoliberismo, conferma puntualmente le analisi di Marx sulla sostanziale incorregibilità del capitalismo.

Guido Carandini ha il merito di riproporre la sostanziale verità di quelle analisi, che non hanno termini di confronto nell’ambito del liberismo, che insiste contro, l’evidenza delle cose, a fare riferimento alla capacità di autoregolazione del mercato, in un periodo in cui esse tendono ad essere rimosse dalle forze di sinistra.

Comunque inteso, un socialismo senza Marx - si definisca esso riformista, socialdemocratico o liberale — è praticamente improponibile perché difetta di adeguati strumenti di analisi del sistema capitalistico. Ciò è vero oggi come lo era all’epoca di Marx. Non si può però non tenere conto di ciò che è accaduto nell’intervallo storico per capire le difficoltà di incontro e di integrazione tra la tradizione socialista e quella marxista (occidentale).

All’epoca, furono i partiti socialisti la cassa di risonanza del pensiero di Marx, nel quale identificavano un modello di analisi della realtà economica di tipo scientifico, che dava concretezza e vigore alle intuizioni maturate all’interno del campo socialista. Rapidamente, la teoria marxiana divenne il metro di riferimento di tutti i partiti socialisti europei. E’ doloroso ma necessario ammettere che fu Marx, esasperato dallo status quo e abbagliato dall’utopia rivoluzionaria, che in Europa, in realtà, non aveva molti riscontri, ad avviare un conflitto frontale con il socialismo bollandolo come utopista, opportunista, piccolo-borghese, ecc. Gli eredi di Marx, e in particolare i comunisti sovietici, portarono alle estreme conseguenze questo errore, giungendo ad identificare nei partiti socialdemocratici i nemici giurati contro i quali indirizzare gli strali delle accuse più sprezzanti.

In conseguenza di questo, il campo della sinistra si è letteralmente scisso, con un carico di risentimenti e di livore reciproco che ne ha reso sempre difficile la ricomposizione e l’integrazione.

Il libro di Carandini è un ennesimo, coraggioso tentativo di promuovere tale integrazione, che appare necessaria di fronte all’avanzata e all’arroganza del neoliberismo. Se si eccettua la reinterpretazione della teoria del valore-lavoro, non è un libro nuovo in assoluto. Esso però va letto e meditato, perché, non diversamente da Derrida, sostiene con una ricca messe di argomentazioni che una sinistra senza marx, senza lo spirito e la potenza interpretativa di Marx, non ha futuro.